Su di me!

Premio Antonio Fogazzaro 2019: Un remo silenzioso tra le onde!

Anche quest’anno ho presentato un racconto in concorso per la sezione “Il baule della memoria”, ispirato ad amico e artigiano di Lezzeno capace di creare meravigliose “Lucie”; partendo da qui il racconto vuole poi  essere un ricordo di una realtà passata che nelle nostre zone di confine è stata essenziale per la sopravvivenza: il contrabbando! Il racconto é arrivato al secondo posto… Di seguito troverete il testo integrale, buona lettura!

Un nuovo inverno è iniziato a Lezzeno e come ogni sera due occhi malinconici si affacciano alla vetrata del laboratorio e guardano il sole che sulla sponda opposta del lago pian piano si ritira dietro le cime delle montagne. In questi paesi invece i mesi invernali scorrono lenti e senza il tepore del sole. “Sarà una notte ancora più buia” mormora tra sé e sé l’artigiano “nemmeno la luna arriverà a donarci un po’ del suo pallido chiarore”. E così dicendo tornò a sedersi e a lavorare ad una delle sue preziose creature. Sono ormai finiti i tempi in cui il suo cantiere nautico era tra i più prestigiosi del lago; rimane solo lui, l’ultimo discendente di una famiglia il cui nome ha navigato sulle acque di tutto il mondo. Ora la sua esperienza e il suo amore si riversano nella costruzione di piccole e graziose barchette, che non cavalcheranno mai le acque di nessun lago. Prende come modello il “batell”, l’imbarcazione tipica del Lago di Como resa celebre da Manzoni nel suo romanzo “I promessi sposi”; egli la chiama “Lucia” e questo nome ormai è diventato popolare. Così l’artigiano passa il tempo chiuso qui scegliendo e preparando il legno, curvando, incollando e dipingendo le sue creazioni… e allo stesso tempo dipinge anche le sue giornate. Si ferma un attimo prima di chiudere il laboratorio e tornare a casa; ammira le luci sul lago e pensa a quante volte si è lasciato cullare da quelle dolci acque. Tutto ad un tratto sobbalza per un frastuono, uno sbattere di chiglia sulla riva; con un lume corre sulla spiaggia per vedere cosa è successo ma nulla è diverso dal solito; il lago è calmo e incessante ripropone il suo sciabordio. “Fantasie di un vecchio” borbotta “come al solito devo essermi appisolato”; ma invece di avviarsi verso casa torna a sedersi davanti al suo lago e ripensa a quando era un ragazzo; quante volte suo malgrado aveva sentito quel rumore di barca che sbatte sulle rive? Avrebbe voluto un figlio, e magari anche un nipote, cui poter raccontare le storie del suo passato; ma la vita ha deciso diversamente e quindi le sue memorie sembrano destinate a perdersi con lui. “Non posso permettere che una parte così importante della nostra storia vada dimenticata” pensa “scriverò quel che ho nei miei ricordi e li nasconderò nella mia più bella Lucia; la persona che la riceverà sono certo saprà dare valore a quello che custodisce”.

Ricordo fin troppo bene, come se questi ottant’anni non fossero passati, quel giorno di ottobre del 1940. Da pochi mesi Mussolini, affacciato al balcone di Piazza Venezia, aveva proclamato l’entrata in guerra dell’Italia a fianco dei nazisti di Hitler; era convinto che la fine della Seconda Guerra Mondiale fosse ormai vicina. In paese molti, come il Duce, erano sicuri che con un minimo impegno bellico saremmo saliti sul carro dei vincitori.

E così, come dicevo, quel giorno di ottobre cambiò le nostre vite. Era una bella giornata di sole; l’autunno nel pieno del suo splendore ci stava regalando tutte le sfumature dei colori caldi che solo le foglie hanno, prima di abbandonarsi al grigiore dell’inverno. Noi ragazzi in questo periodo, dopo le ore passate a scuola, andavamo a raccogliere le castagne che sarebbero poi state essiccate per poter essere conservate tutto l’inverno. Dal bosco tornavamo sempre con un buon raccolto; oltre al frutto del castagno raccoglievamo anche i rametti secchi e i ricci per accendere il camino; le foglie invece servivano come strame nelle stalle degli animali.

Entrando in casa trovai una grande agitazione nella nostra cucina; era solo una piccola stanzetta arredata con una credenza, un lavello e una stufa economica sulla quale in quel momento cuoceva un minestrone fatto con le ultime verdure del nostro orticello. Completava il frugale arredamento un caminetto sempre acceso, con appesa la “pügnata” per scaldare l’acqua e un tavolo in legno. Questo era il centro della nostra casa; tutto quello che era importante succedeva qui, attorno a questo tavolo, che fossero liti o che fossero momenti gioiosi e conviviali. Così era anche questa volta; entrando vidi la mamma in lacrime e attorno a lei erano stretti tutti i componenti della nostra famiglia: mio padre, mio nonno, mio fratello maggiore e le mie due sorelline più piccole. Lasciai cadere il mio fardello e le castagne rotolarono sul pavimento della cucina; fu così che si accorsero del mio rientro. Le mie sorelline, non avendo capito il significato di quel che avevano sentito, mi corsero incontro dicendo “Papà e Nene sono stati reclutati nell’esercito”; Nene era il nomignolo che avevamo dato a nostro fratello. Credo che nemmeno io in quel momento riuscii ad afferrare il senso di queste parole. Eppure la mamma era una donna forte, l’avevo vista piangere solo una volta quando la nonna era morta; se ora era così disperata la situazione doveva essere davvero grave. Fu il papà a spiegarmi il significato della lettera che era arrivata a casa quella mattina e che era appoggiata, un po’ stropicciata e bagnata di lacrime, sul nostro tavolo. L’Italia aveva bisogno di soldati per rendere il Paese vittorioso; tutti gli uomini in grado di combattere erano quindi chiamati alle armi. Non c’era altra scelta, se non essere dichiarati disertori. Da una settimana all’altra quindi saremmo rimasti a casa da soli a lottare per la nostra sussistenza e a pregare che i nostri famigliari tornassero incolumi dal fronte”.

Papà e Nene partirono insieme in un umido martedì mattino per recarsi a Como e andare incontro al loro incerto destino. Presero le poche cose che possedevano, un boccone di pane e formaggio nella sacca e ci lasciarono con la promessa di scrivere appena avessero potuto. All’epoca io avevo solo tredici anni e nessuna idea di come ce la saremmo cavata senza di loro; il nonno e i suoi fratelli da giovani avevano aperto un cantiere nautico che ora era ben avviato. Il destino, con le sue trame intricate, aveva deciso che unico erede del cantiere fosse mio padre; il nonno aiutava ancora come poteva e mio fratello era già entrato a far parte dell’attività. Io, seppur ancora in età scolare, iniziavo a svolgere qualche lavoretto e ad imparare i segreti che rendevano le nostre barche apprezzate su tutte le sponde lariane. Cosa ne sarebbe stato ora del nostro mondo? Di sicuro avremmo dovuto chiudere il cantiere, senza nemmeno terminare tutti i lavori presi in carico. Fu il nonno a confermare le mie preoccupazioni; “mi darai una mano a sistemare e chiudere il laboratorio” disse senza alcuna emozione nella voce “questa dannata guerra comunque ci avrebbe comunque rovinato, di questi tempi nessuno pensa ad acquistare una barca nuova”. In quel momento, mentre vedevo il nostro amato cantiere immobile, mentre sentivo un silenzio che qui non c’era mai stato, mentre il nonno mi dava le spalle per nascondermi le lacrime che luccicavano nei suoi occhi vecchi e stanchi… proprio in quel momento sperai con tutto me stesso che la guerra finisse velocemente così come la propaganda fascista prometteva.

Passavano i giorni aspettando notizie che tardavano ad arrivare dai nostri cari. La mamma aveva riorganizzato la vita casalinga per far fronte alla nuova situazione; aveva chiesto alla famiglia per cui lavorava come governante di poter aumentare le sue mansioni e siccome ci volevano bene offrirono anche a me un lavoro pomeridiano in villa come tuttofare. In questo modo riuscivamo a racimolare il minimo indispensabile per sopravvivere. Finalmente a dicembre arrivò la prima lettera di papà; quella sera io e la mamma rientrammo insieme dalla villa e appena varcata la soglia di casa trovammo il nonno che ci aspettava impaziente con in mano questa busta che non voleva aprire da solo. La mamma corse subito a sedersi per iniziare a leggere, ma prima vidi le sue labbra muoversi impercettibilmente in una muta preghiera. La missiva, dopo una serie di domande per sapere tutto sulla nostra vita in paese, finalmente calmava le nostre ansie sul destino capitato a Nene e papà. Per la loro esperienza in campo nautico erano stati imbarcati entrambi sulla Vittorio Veneto; persino attraverso l’inchiostro si poteva percepire l’entusiasmo di papà parlando di questo colosso della Regia Marina Italiana che aveva un equipaggio di più di 1800 uomini e che durante la guerra del Mediterraneo avrebbe poi partecipato a 56 missioni. Erano quindi stati assegnati ad un mondo che amavano ed erano insieme! Questo a noi bastava per essere più tranquilli.

Passavano i mesi e a casa eravamo sempre più in difficoltà; con il protrarsi dell’inverno finirono le scorte di cibo che avevamo messo da parte e anche nelle botteghe i prodotti iniziavano a scarseggiare. La situazione ogni giorno diventava più dura, per noi e per tutte le altre famiglie.

La soluzione ai nostri problemi arrivò in una tiepida sera di marzo quando un amico del nonno venne a trovarci. Tutti in paese sapevamo come arrivavano sulle nostre tavole alcuni prodotti ormai impossibili da reperire come farina, zucchero e patate; le tessere con cui potevamo prendere nelle botteghe quello che era previsto dal razionamento non bastavano per le nostre necessità. Per questo motivo molta merce si reperiva sul mercato nero, alimentato dal contrabbando. Le nostre terre di confine sono sempre state teatro del passaggio di uomini forti e coraggiosi che per portare un po’ di benessere in famiglia e in tutto il paese erano disposti a rischiare la loro libertà e spesso anche la vita. Con l’inizio della guerra anche il contrabbando tuttavia si era un po’ fermato per la mancanza di uomini che potessero portare il sacco.

Questo signore seduto al nostro tavolo da sempre era uno dei capi che prendeva gli ordini dai padroni e organizzava i viaggi oltre confine. Le merci più contrabbandate erano sigarette, farina, riso, zucchero e caffè; la maggior parte arrivavano dalla Svizzera per essere poi vendute sotto banco in Italia ma alcune, come il riso, facevano il tragitto inverso dalle pianure di Vercelli e Novara per essere smerciate in Svizzera.

La visita di quest’uomo, comunque, aveva inquietato la mamma che forse già intuiva i motivi che lo avevano portato a casa nostra. Dopo una mezz’oretta a parlare del più e del meno finalmente il nostro ospite affrontò l’argomento che gli stava a cuore; sapeva che nella rimessa del nostro cantiere avevamo alcune barche da corsa inutilizzate. Con l’arrivo della guerra infatti lo sport era stato accantonato; così come tante altre cose della nostra vita quotidiana anche questo ormai era solo un lontano ricordo. Le barche sarebbero ora state utili per il contrabbando, ci spiegò; una volta che gli “sfrosadoo” scendevano dalle montagne con le “bricolle” serviva qualcuno pronto sul lago a ricevere la preziosa merce. Quindi ci volevano barche velocissime e silenziose, così come silenziosi ed esperti dovevano essere i rematori a bordo. Le barche costruite appositamente per sfrosare si chiamavano “barchitt” e potevano portare da due a cinque rematori; in tempo di guerra era però difficile procurarsi i barchitt perché gli artigiani erano ormai tutti partiti per il fronte. Servivano dunque barche, ma non solo! C’era anche bisogno di rematori forti e a questo punto il centro del discorso si spostò su di me. Molti ragazzi della mia età sapevo che già facevano viaggi col sacco; non se ne parlava mai apertamente ma tutti sapevamo che erano grandi fatiche quelle che sopportavano i contrabbandieri. Dovevano muoversi di notte, furbi e silenziosi, per sentieri lunghi ed impervi con sacchi in spalla che potevano arrivare a pesare fino a 40kg. Senza luce si muovevano in fila indiana ma distanziati tra di loro per limitare le perdite nel caso i finanzieri fossero stati in agguato. A volte le trappole venivano tese nei pressi del confine, altre volte i “burlanda” aspettavano i contrabbandieri sul lago, nei luoghi in cui prevedevano avrebbero fatto il passaggio delle bricolle; potevano essere in agguato sia sulla terraferma che sull’acqua. In questi casi la prima cosa che il contrabbandiere pensava a mettere in salvo era la propria vita, disfacendosi della bricolla che con il suo peso avrebbe intralciato la fuga e che lo avrebbe condannato nel caso fosse stato preso; abbandonare la bricolla prima che fosse arrivata sulla barca significava tuttavia non riscuotere la paga per il viaggio fatto.

Le carte erano quindi state messe in tavola, si trattava solo di decidere cosa fare! Accettare la proposta rischiosa ma redditizia, oppure fingere che la discussione di quella sera non fosse mai avvenuta. Il nonno si capiva che era favorevole ma non voleva dire nulla prima che la mamma avesse espresso la sua opinione; lei, per come si stava torturando le mani in grembo, era evidentemente in preda ad una grande indecisione. Incapace di risolversi chiese quindi a me cosa ne pensavo e sopratutto se mi sentivo pronto per un ruolo così difficile. Sapeva lei, come sapevamo tutti, che sulle barche io ero praticamente nato e che uscivo sul lago da solo ormai da parecchi anni. Non avevo la minima paura e per questo decisi di provare; l’unica cosa che ancora non potevo sapere era se avrei avuto il sangue freddo necessario in caso di difficoltà, ma presto arrivò il momento di scoprirlo.

In una buia sera di aprile senza luna la mia avventura ebbe inizio; quella notte a casa, così come in tutto il paese, tutti sarebbero rimasti svegli trattenendo il respiro… e anche le loro paure. Ogni volta che partiva una spedizione la tensione era tangibile per tutto il giorno tra i vicoli, nei negozi e nelle case; nel bene e nel male quello che succedeva riguardava tutta la comunità. Chiunque avrebbe aiutato gli spalloni dando loro riparo e ristoro se necessario; se qualcuno veniva a sapere di imboscate da parte dei finanzieri trovava il modo di avvisare i contrabbandieri del pericolo. E anche chi non voleva immischiarsi in queste faccende comunque taceva, non metteva a rischio l’incolumità dei nostri ragazzi. Se un finanziere fosse arrivato in paese a cercare qualcuno quasi sicuramente sarebbe andato via a mani vuote! Naturalmente qualche spia ogni tanto denunciava gli spalloni e faceva soffiate sui loro giri; quando venivano individuate queste persone venivano escluse dalle compagnie in modo da non potere più fornire informazioni alle guardie.

E così, dicevo, partii per il mio primo viaggio con l’adrenalina che solo quando si è giovani e un po’ incoscienti si ha nel corpo. Mi affidarono un incarico semplice; eravamo in due sulla barca e avremmo dovuto portare un carico da Brienno a Nesso. Le indicazioni da seguire erano poche e chiare: remare silenziosamente e in sintonia con il compagno; aguzzare la vista e in caso di finanzieri nelle vicinanze rimanere immobili ed acquattati. Se i burlanda ci avessero visti allora avremmo dovuto batterli in astuzia e velocità; potevamo anche abbandonare una o più bricolle per essere più veloci. La mia prima avventura andò a buon fine. Mi bastarono tuttavia poche uscite per rendermi conto di due cose: la prima, che sarei stato un ottimo contrabbandiere e la seconda che appena non ne avessi più avuta la necessità avrei smesso di sfrosare. Non era questa la vita che faceva per me, alle notti passate sul lago a rischiare la pelle preferivo le giornate di fatica al cantiere nautico. Non era altrettanto redditizio ma per me la tranquillità di una vita tanto povera quanto onesta non aveva prezzo. Tutto ciò mi fece odiare ancora di più questa guerra; finché non fosse finita in qualche modo dovevamo sfamarci… e in ogni caso niente sarebbe potuto ricominciare senza mio padre e mio fratello.

Fu in una fredda notte del 1944 che feci il mio ultimo giro; dovevamo andare a Dongo, con il mio compagno con cui ormai facevo coppia fissa, per prendere un carico di sigarette. Ma qualcosa andò storto quella notte, sicuramente qualcuno aveva fatto una soffiata. Quando gli spalloni arrivarono a caricare la nostra barca i finanzieri erano in agguato sia sul lago che sulla strada. Ci allontanammo senza aspettare le bricolle, dovevamo prendere il largo il più velocemente possibile; i finanzieri cominciarono a sparare e io sentii un tonfo nel lago e la barca che rallentava. Il mio compagno era stato ferito ma io non potevo fermarmi, quindi remai con tutte le mie forze fino a che riuscii a far perdere le mie tracce. Tornai a Lezzeno e portando la barca nella rimessa giurai a me stesso che non avrei più accettato altri ingaggi.

Rientrai a casa e mi sedetti in cucina per cercare di calmare la mia angoscia; sentii l’abbraccio della mamma avvolgermi e tra le lacrime cercai di raccontare quanto era successo. Insieme aspettammo il mattino per avere notizie del mio amico; non tardarono ad arrivare ma purtroppo erano quelle che mai avrei voluto sentire. Io l’avevo scampata ma lui era rimasto ucciso nell’agguato… avevo solo 17 anni e pensavo che non avrei sopportato questo grande dolore.

I mesi passarono e nell’aria si sentiva che la guerra era ormai agli sgoccioli; a marzo i nostri famigliari furono congedati e il 25 aprile finalmente in tutto il Paese si festeggiò la Liberazione dall’occupazione nazista e dal regime fascista. Non dimenticherò mai il giorno in cui tutti ci riunimmo di nuovo in cucina; sul nostro tavolo c’era solo polenta condita con poco formaggio ma per noi fu una cena dal sapore unico. Sia papà che Nene erano provati da quel che avevano vissuto ma in fondo nessuno di noi era più lo stesso di cinque anni prima. Comunque eravamo insieme e questa fortuna l’avevano avuta in pochi. Ci vollero anni prima che il nostro cantiere tornasse a lavorare a pieno ritmo e che il cuore delle persone iniziasse a guarire, ma infine la vita vinse e tutto tornò alla normalità.”

Così l’artigiano, soddisfatto ma stanco dopo aver rivangato troppi ricordi, chiuse la busta con il suo racconto e la nascose nel cuore di una bellissima Lucia. Il giorno dopo avrebbe recapitato il suo regalo ad una scrittrice speciale del paese con una semplice dedica “A te che saprai valorizzare quel che è celato nel profondo!”.

 

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